La più promettente frontiera della fidelizzazione del consumatore, sia on line che off line nel commercio di prossimità, è probabilmente il cashback, ovverosia la restituzione in denaro di una percentuale/quota sul volume d’affari acquistato presso un circuito, una catena o un canale d’acquisto. Particolarmente promettente, si diceva, perché consente di indurre il consumatore a integrare le proprie attività di acquisto elettronico con quelle tradizionali.
Al fine di inquadrare la fattispecie vi è da dire che l’ottica del fenomeno è quella di considerare il volume di spese generato dal consumatore nel suo paniere complessivo, indipendentemente dal contratto stipulato di volta in volta: se è vero che la compravendita è sicuramente la regina, ai fini del cashback possono valere anche altri contratti come l’assicurazione per l’auto, i canoni di un leasing o pacchetti turistici per le vacanze. Questo dato di partenza è centrale per analizzare giuridicamente la fattispecie, difatti va categoricamente esclusa la nozione di ‘sconto’ (quindi, giuridicamente, di riduzione del prezzo quale corrispettivo del negozio traslativo posto in essere dalle parti) poiché il cashback non incide sul contratto intercorso tra le parti ma si situa a valle dello stesso, in un momento futuro e incerto (quando il consumatore avrà raggiunto le soglie minime per la corresponsione) e in dipendenza da altri e ulteriori contratti stipulati con soggetti terzi.
Trattandosi di società orientate al profitto, deve essere esclusa l’applicabilità dell’istituto del ristorno mutualistico di cui all’art. 2545bis C.C., che in linea di principio al cashback sarebbe assimilabile e maggiormente affine. Potrebbe invece essere verosimilmente evocabile il ristorno se ci si collocasse all’interno di un gruppo cooperativo paritetico o di una rete di imprese a vocazione sociale non orientate al profitto.
Senza limitarsi a un richiamo generico all’art. 1322 C.C. in materia di autonomia negoziale e meritevolezza di tutela, l’unico istituto a qualche titolo evocabile è quello della donazione remuneratoria di cui all’art. 770 C.C.. Nell’istituto appena richiamato il tratto della liberalità proprio della donazione sia, nella sostanza, recessivo residuando solo il nocciolo primigenio dell’istituto donativo, cioè la spontaneità (nullo iure cogente), difatti al secondo comma, la legge si incarica di esplicitare che persino la conformità agli usi, fonte di rango più basso (art. 1 preleggi), è idonea a escludere la donazione, proprio sull’assunto che l’agente operi nella convinzione di adempiere a un dovere in qualche modo giuridico o percepito come tale nella comunità di riferimento. Se è dunque vero che qui ci troviamo di fronte a un contratto con reciproci diritti e obblighi, spesso stipulato in via adesiva con il soggetto che promette il cashback, che può dunque rientrare a pieno titolo nel dipanarsi dell’autonomia negoziale degli operatori, vi è però da guardare alla sproporzione spesso evidente fra la somma rimborsata all’acquirente del servizio e quella dallo stesso corrisposta per il suo acquisto (la somma restituita può arrivare nella più ottimistica delle ipotesi al 10%, ma nella stragrande maggioranza dei casi non supera il 2-4%), a tal proposito si potrebbe ricuperare la previsione dell’art. 770 C.C. laddove parla di servizi resi: in un’ottica di interpretazione evolutiva del sistema, proprio la globalità dell’ottica considerata dalle operazioni di cashback potrebbe essere utilmente sussunta nella previsione normativa, rientrando quindi l’operazione economica nelle piccole dazioni monetarie della vita comune.
Sul piano ricostruttivo, quindi, appare più fondato parlare di una fattispecie complessa a formazione progressiva costituita da un contratto tipico e una liberalità d’uso giuridicamente meritevole di tutela in un quadro di autonomia contrattuale.
Avv. Anna Rita Freda
Avv. Alberto Leoncini